Pezzo in lingua originale inglese: Studying the Islamic Way of War
Traduzioni di Fabrizia B. Maggi
Nella conferenza iniziale della Association for the Study of the Middle East and Africa (ASMEA) dello scorso aprile, il tenente colonnello Joseph Myers – che presentava l’evento –, ha messo in evidenza un punto interessante che merita un ulteriore approfondimento. Sebbene gli studi militari abbiano assorbito e dato tradizionalmente valore ai testi della dottrina classica sulla guerra – come il trattato Della guerra di von Clausewitz, L’arte della guerra di Sun Tzu, e persino le imprese di Alessandro il Grande come documentate da Arriano e da Plutarco – , la dottrina islamica sulla guerra, anch’essa fondata su altrettanti testi, è stata totalmente ignorata.
Com’è avvenuto di recente nel 2006, William Gawthrop – un ex alto ufficiale del Pentagono -, lamentava che “gli istituti che svolgono il programma Senior Service del Dipartimento della Difesa non hanno incluso nei loro curricula uno studio sistematico su Maometto come leader politico o militare. Di conseguenza, continuiamo a non avere una comprensione approfondita sulla dottrina militare prescritta da Maometto, di come potrebbe essere applicata oggi da un numero di gruppi islamici in continuo aumento, o di come potrebbe essere contrastata [enfasi dell’autore, Ndt]”. Oggigiorno, sette anni dopo l’11 settembre, la nostra comprensione della condotta islamica in guerra è migliorata ben poco.
Tutto ciò è ancora più ironico se consideriamo che, mentre le teorie militari classiche (von Clausewitz, Sun Tzu, Machiavelli, e altri) sono ancora incluse nei programmi dei corsi universitari sulla guerra, si può argomentare che queste teorie e questi corsi ormai abbiano poco valore pratico nell’attuale e molto diverso paesaggio di guerra e diplomazia. Facciamo un paragone con le dottrine sulla guerra tipiche dell’Islam: la loro qualità “teologica” – visto che sono basate su una religione i cui precetti “divini” trascendono il tempo e lo spazio, e vengono considerati immutabili – fa sì che i principi militari islamici passino difficilmente alla moda. Se qualcuno potrebbe anche sostenere che studiare come fece Alessandro Magno a manovrare la sua cavalleria nella Battaglia di Gargamela nel 331 a.C. sia un esercizio accademico oltre che anacronistico, le imprese e gli stratagemmi del profeta Maometto – e la sua “sunna sulla guerra” – sono ancora di esempio per i moderni jihadisti.
Per esempio, la maggioranza delle scuole di diritto islamico – basandosi sulle parole e gli scritti di Maometto – concordano sulla legittimità delle seguenti tecniche di guerra contro l’Infedele: l’uso indiscriminato di armamenti missilistici, anche in presenza di donne e bambini (nel contesto del VII secolo, l’epoca di Maometto, si trattava di catapulte; oggi abbiamo a che fare con aerei dirottati o armi di distruzione di massa); il bisogno di ingannare sempre il nemico, che sottintende anche la rottura di accordi formali non appena si presenta l’occasione di farlo (basta vedere Sahih Muslim 15: 4057); e che l’unica funzione di un accordo di pace – la hudna – è quella di offrire agli eserciti islamici il tempo per riorganizzarsi per una nuova offensiva, considerando che gli accordi o le tregue in teoria non dovrebbero durare più di un decennio.
I versetti coranici 3:28 e 16:106, come nella celebre asserzione di Maometto “La guerra è inganno” hanno spinto alla formulazione di una serie di dottrine sulla dissimulazione – la più famosa quella della Taqiyya, che permette ai musulmani di mentire e di mimetizzarsi nel caso in cui si trovino sotto l’autorità degli Infedeli. L’inganno ha un ruolo di così grande rilievo nella dottrina militare islamica, che il famoso studioso musulmano Ibn al-Arabi ha dichiarato: “Negli Hadith la pratica dell’inganno durante la guerra è ben dimostrata. Infatti, viene posta più insistenza sulla necessità dell’inganno che su quella di avere coraggio”.
In aggiunta al fatto di ignorare queste strategie islamiste, che sono ben documentate, appare ancora più problematico il continuo fallimento del Dipartimento della Difesa nel non riuscire a valutare alcune precise dottrine “eterne” dell’Islam – come la dicotomia tra la “Casa della Guerra” versus la “Casa dell’Islam”, per cui l’Islam deve mantenersi sempre in uno stato di ostilità rispetto al mondo degli Infedeli e, non appena possibile, deve dichiarargli guerra fino a quando l’intero territorio degli Infedeli non sarà portato sotto la dominazione islamica. Di fatto, la dicotomia dell’ostilità è codificata senza alcuna ambiguità nella visione del mondo islamico ed è ritenuta una fard kifaya, ossia un obbligo imposto a tutta la comunità musulmana e che può realizzarsi soltanto quando alcuni musulmani, detti “jihadisti”, lo sostengono attivamente.
Malgrado queste dottrine problematiche – anche se rivelatrici –, e nonostante il fatto che una veloce ricerca sui libri e sui siti islamisti dimostra senza ombra di dubbio che gli attuali e gli aspiranti jihadisti citano costantemente questi aspetti dottrinali della guerra – e quindi li prendono sul serio –, gli alti ufficiali del governo americano e i responsabili della difesa dell’America, in realtà non la difendono affatto.
Perché? Perché i Whisperers (‘quelli che bisbigliano’, Ndt) – secondo l’appropriato epiteto coniato da Walid Phares per indicare la maggioranza degli studiosi islamici e del Medio Oriente e i loro disponibili apologeti sulla stampa – hanno gridato all’eresia quando qualcuno ha osato far notare che esiste una connessione tra la dottrina islamica e il terrorismo islamista attuale, come testimonia la debacle di Steven Coughlin. E’ una storia fin troppo familiare per coloro che si muovono in questo campo (si veda per esempio l’opera di Martin Kramer, Ivory Towers on Sand: the Failure of Middle Eastern Studies in America).
Se è pur vero che oggi esistono molti dipartimenti di studi sul Medio Oriente, una persona potrebbe essere seriamente in difficoltà se volesse trovare un qualsiasi corso relativo ai temi più cruciali e rilevanti di oggi (soprattutto nelle università più “prestigiose”), ad esempio corsi sulla giurisprudenza islamica e su che cosa ne pensano i giuristi del jihad oppure del concetto di “Casa dell’Islam” versus la “Casa della Guerra”. Siamo stati rassicurati sul fatto che questi argomenti hanno delle problematiche implicazioni internazionali e quindi è meglio se vengono tenuti nascosti. In compenso l’aspirante studente viene inondato di corsi che si occupano dei mali del cosiddetto “Orientalismo” e del colonialismo, di studi sul gender e sulla società civile.
Ma la cosa più ironica – e quando si parla del rapporto tra Islam e Occidente spesso l’ironia abbonda – è che lo stesso giorno della conferenza dell’ ASMEA (che, tra l’altro, includeva uno schietto discorso del primo e più autorevole studioso di islamistica, il professor Bernard Lewis: “Mi sembra una situazione pericolosa quella in cui ogni tipo di discussione degli studiosi sull’Islam viene considerata, come minimo, pericolosa…”), il Dipartimento di Stato americano annunciava che non avrebbe più chiamato il radicale-tipo di al-Qaeda “jihadista”, né “mujahadin”, né avrebbe incorporato nessun’altra parola araba di connotazione islamica (quindi sono escluse anche parole tipo “califfato”, “islamo-fascismo”, “Salafita”, “Wahhabita” e “Ummah”).
Ahimè, il governo americano non solo ha difficoltà nell’accettare il più essenziale e semplice consiglio sulla guerra – come dice una vecchia massima di Sun Tzu, “Conosci il tuo nemico” – ma si trova anche in difficoltà nel riconoscere il suo stesso nemico.
Raymond Ibrahim è il direttore associato del Middle East Forum e l’editor/traduttore di The Al Qaeda Reader. Scrive per il Jihad Watch.
Tratto da “National Review Online”
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